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🍃Pianto antico 🍃 🌾 Giosuè Carducci 🌾
❤ L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu, fior de la mia pianta
percossa e inaridita
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei nella terra fredda
sei nella terra negra
nè il sol più ti rallegra
nè ti risveglia amor ❤

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5 MAGGIO

"Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.

Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.

Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.

Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.

Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l’avvïò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.

Bella Immortal! Benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò."

(Alessandro Manzoni)

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https://tass.com/politics/1662009

L’ambasciata russa negli Stati Uniti accusa Washington di aver tentato di gestire l’epidemia
Con il pretesto di monitorare le malattie, Washington sta spargendo i suoi laboratori illegali in tutto il mondo, sfacciatamente e impunemente; la creazione di numerose strutture di questo tipo lungo i confini della Russia, ha affermato in una nota l'ambasciata russa a Washington
WASHINGTON, 17 agosto. /TASS/. Le autorità statunitensi stanno creando laboratori in tutto il mondo per poter gestire le epidemie nel proprio interesse, ha affermato in una nota l'ambasciata russa a Washington.

"La ricerca incontrollata sui prodotti a duplice uso condotta dal Pentagono continua a sollevare interrogativi da parte della comunità internazionale. La Russia ha più volte sottolineato palesi violazioni da parte degli Stati Uniti della Convenzione sulle armi biologiche. Washington continua a ignorare le lamentele, citando un aspetto umanitario dei suoi programmi", si legge nel rapporto. si legge nella dichiarazione.

"Vorremmo sottolineare che qualsiasi buon scopo dei progetti portati avanti dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è fuori discussione. Ci sono prove che dimostrano che gli Stati Uniti hanno condotto ricerche che coinvolgono potenziali agenti di guerra biologica, e le prove sono significative. Ci sono è anche la prova dei tentativi di potenziare deliberatamente le proprietà patogene degli agenti che causano infezioni socialmente significative", ha osservato l'ambasciata.

"Con il pretesto di monitorare le malattie, Washington sta spargendo sfacciatamente e impunemente i suoi laboratori illegali in tutto il mondo; costruendo numerose strutture di questo tipo lungo i confini della Russia. L'obiettivo chiaramente è quello di essere in grado di generare crisi biologiche in un momento prestabilito e creare siti artificiali di infezione, cioè per gestire le epidemie", aggiunge la nota.

"Le attività del Pentagono in Ucraina destano particolare preoccupazione. Gli Stati Uniti hanno coinvolto nei loro progetti dozzine di istituti statali e aziende private del paese. I civili e i militari del paese sono diventati donatori di biomateriali e semplici cavie per i test", ha osservato l'ambasciata, aggiungendo : "Non c'è dubbio che tali azioni richiedono un'adeguata valutazione giuridica, in particolare da parte delle istituzioni internazionali competenti."

"I fatti riguardanti le attività militari e biologiche illegali degli Stati Uniti, resi pubblici dal Ministero della Difesa russo, fanno ancora una volta chiedersi quali siano i loro reali scopi e obiettivi. Anche gli americani comuni hanno crescenti domande che richiedono chiarimenti da parte del governo riguardo i programmi che sono stati sponsorizzati", si legge nella nota. "È giunto il momento che Washington ammetta che, sebbene sia ancora in grado di garantire il sostegno delle nazioni che la pensano allo stesso modo sulle piattaforme multilaterali e di mettere a tacere coloro che hanno dubbi, non sarà in grado di allontanarsi dalle rivendicazioni del suo stesso popolo", ha sottolineato l'ambasciata russa.

⚘ Cavallina Storna ⚘
❤Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d'otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu c'hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla".
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
Con lui c'eri tu sola e la sua morte
O nata in selve tra l'ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l'agonia...".
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l'eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole".
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l'abbraccio' su la criniera.
"O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
esso t'è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come".
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l'unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.❤
○ Giovanni Pascoli ○

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🍃IL SABATO DEL VILLAGGIO ;
Giacomo Leopardi 🍃
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giù da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

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E poi di colpo entrare in quel mondo spugnoso che è la vita a settant’anni, quasi ottanta. Da soli.

Penetrare nei dieci minuti per soffiare il caffè, nei denti che fanno gli scherzi quando mangi la schiacciata con il bordo, nelle lentezze del doversi appoggiare ad una mazza.

Addentrarsi nel telefono che squilla e non lo senti. E quando te ne accorgi è tardi. Allora prendere la borsa, trovare il carrello della cerniera, ansimare perché chinarsi è una fatica, aprire la borsa e prendere il telefono. E a quel punto ripartire con una serie di operazioni che sembra la battaglia di Waterloo, mentre invece è solo il tuo giorno qualunque.

Per arrivare a richiamare chi ti aveva cercato che magari è un maledetto call center oppure qualcuno che non avevi voglia di sentire. Anche se è da una settimana che nessuno ti chiama e allora la voglia ti viene. Pure se è tua cugina che è pesante e anche questa volta esordisce con il bollettino dei nuovi morti. E a te non interessa. Ma ti fingi lo stesso sorpresa.

Infilarsi nello spazio tra un brevissimo colpo d’entusiasmo e la sconfinata landa di rassegnazione che segue. Tra il sentirsi di nuovo il treno che eri e il non farcela più ad accendere il fornello. Sospirare, ricacciare il groppo in gola, pensare che tanto nessuno può sentirti e allora liberare il guinzaglio al pianto.

Introdursi nel conoscere a menadito tutte le tue patologie, le operazioni passate, i nomi dei medicinali. Sciorinare dosi in milligrammi che sembri una farmacista. Per poi pensare che sarebbe stato un bel mestiere, che avresti potuto farlo. Ma ora non puoi più, perché non c’è più tempo.

Non c’è più tempo. Che non è la verità, ma una dimensione. La tua dimensione. E allora di nuovo un sospiro, il solito groppo in gola, prima inghiottito e poi risputato, quindi il pianto. Silenzioso, rapido, acido.

Accedere finalmente nel sacro tempio del lamento, che è una liberazione che non ha consistenza. Come rivendicare qualcosa di cui non saprai che fartene, che non sarai in grado di usare.

E così aggrapparsi al sole di domani mattina, che arriverà molto dopo al tuo risveglio quando ancora è notte. Pensare che sarà bello tirare su le avvolgibili di camera ancora una volta. Osservare il fascio di luce che si infrange sul parquet e quasi acceca. Organizzare la giornata, pensare al pranzo, pregustare il lungo pomeriggio senza farsi travolgere dal vuoto dei minuti che si rincorrono.

Va tutto bene. Adesso va tutto bene. Dirselo, ben sapendo che non durerà. E infatti non dura.

Infine irrompere nell’incertezza di aver lasciato una traccia, di essere stata qualcosa per qualcuna o qualcuno. Ma nella certezza che c’è una fine vicina. Anche se non sai quando.

Ancora un sospiro, ancora un groppo in gola che va su e giù, ancora pianto. Ancora l’altalena frenetica dei tuoi anni, settanta quasi ottanta. Che a volte è tormento, altre assoluzione…

Illustrazione: Becc

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La quiete dopo la tempesta

Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe lá da ponente, alla montagna:
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio,
torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
con l’opra in man, cantando,
fassi in su l’uscio; a prova
vien fuor la femminetta a côr dell’acqua
della novella piova;
e l’erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sí dolce, sí gradita
quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
l’uomo a’ suoi studi intende?
o torna all’opre? o cosa nova imprende?
quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
gioia vana, ch’è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudâr le genti e palpitâr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor; beata
se te d’ogni dolor morte risana.

Giacomo Leopardi // Firmin Girard

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“Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.

O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera ◇

○ Giovanni Pascoli ○
🍃 La mia sera 🍃

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Ti dicono di non piangere.
Ti dicono come piangere.
Ti dicono quando piangere.
Ti dicono perché piangere.
Ti dicono che è un cane, mica una persona.
Ti dicono che il dolore passerà.
Ti dicono che gli animali non sanno di dover morire.
Ti dicono che l’importante è non farlo soffrire.
Ti dicono che tanto ne puoi prendere un altro.
Ti dicono che ti passerà.
Ti dicono che ci sono dolori più lancinanti.

Però non sanno quante volte hai guardato negli occhi il tuo cane.
Non sanno quante volte siete stati tu e il tuo cane soli a guardare le stelle.
Non sanno quante volte accanto a te c’è stato solo il tuo cane.
Non sanno che l’unico che non ti ha mai giudicato è il tuo cane.
Non sanno quanta paura hai avuto la notte che ti hanno svegliato i suoi lamenti.
Non sanno quante volte il tuo cane si è addormentato vicino a te.
Non sanno quanto tu sia cambiato da quando il cane è entrato a far parte della tua vita.
Non sanno del legame che nasce fra l’uomo e il suo cane.
Non sanno quante volte lo hai preso in braccio quando stava male.
Non sanno quante volte hai finto di non vedere il suo pelo che diventava sempre più bianco.
Non sanno quante volte hai parlato al tuo cane, l’unico davvero capace di starti ad ascoltare.
Non sanno quanto tu fossi bello per il tuo cane.
Non sanno che a volte è stato solo il tuo cane a sapere che stavi soffrendo.
Non sanno cosa abbia significato per te camminare con il tuo cane in un bosco, da soli.
Non sanno quali sentimenti il tuo cane ti abbia fatto provare.
Non sanno cosa si prova a vedere il proprio cane anziano che si alza a fatica per venirti a salutare.
Non sanno che quando le cose ti andavano male l’unico che non se n’è andato è il tuo cane.
Non sanno che il tuo cane si è fidato di te in ogni istante della sua vita, anche nell’ultimo.
Non sanno quanto il tuo cane ti abbia amato e quanto poco gli bastasse per essere felice, perché a lui bastavi tu.
Non sanno quanto tu abbia pianto di nascosto al tuo cane per non fargli sentire la tua paura.
Non sanno che piangere per un cane è una delle cose più nobili, significative, vere, pulite, sincere che tu possa fare.

Non sanno dell’ultima volta che lo hai spostato a fatica... facendo attenzione a non fargli male.
Non sanno degli ultimi suoi istanti di vita nei quali avevi paura di accarezzarlo... perché potevi dargli noia o fargli male..

Perché non stai piangendo un cane, ma loro questo non lo sanno.

(Emanuele Spud Grandi x Amarilla)

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