E poi di colpo entrare in quel mondo spugnoso che è la vita a settant’anni, quasi ottanta. Da soli.
Penetrare nei dieci minuti per soffiare il caffè, nei denti che fanno gli scherzi quando mangi la schiacciata con il bordo, nelle lentezze del doversi appoggiare ad una mazza.
Addentrarsi nel telefono che squilla e non lo senti. E quando te ne accorgi è tardi. Allora prendere la borsa, trovare il carrello della cerniera, ansimare perché chinarsi è una fatica, aprire la borsa e prendere il telefono. E a quel punto ripartire con una serie di operazioni che sembra la battaglia di Waterloo, mentre invece è solo il tuo giorno qualunque.
Per arrivare a richiamare chi ti aveva cercato che magari è un maledetto call center oppure qualcuno che non avevi voglia di sentire. Anche se è da una settimana che nessuno ti chiama e allora la voglia ti viene. Pure se è tua cugina che è pesante e anche questa volta esordisce con il bollettino dei nuovi morti. E a te non interessa. Ma ti fingi lo stesso sorpresa.
Infilarsi nello spazio tra un brevissimo colpo d’entusiasmo e la sconfinata landa di rassegnazione che segue. Tra il sentirsi di nuovo il treno che eri e il non farcela più ad accendere il fornello. Sospirare, ricacciare il groppo in gola, pensare che tanto nessuno può sentirti e allora liberare il guinzaglio al pianto.
Introdursi nel conoscere a menadito tutte le tue patologie, le operazioni passate, i nomi dei medicinali. Sciorinare dosi in milligrammi che sembri una farmacista. Per poi pensare che sarebbe stato un bel mestiere, che avresti potuto farlo. Ma ora non puoi più, perché non c’è più tempo.
Non c’è più tempo. Che non è la verità, ma una dimensione. La tua dimensione. E allora di nuovo un sospiro, il solito groppo in gola, prima inghiottito e poi risputato, quindi il pianto. Silenzioso, rapido, acido.
Accedere finalmente nel sacro tempio del lamento, che è una liberazione che non ha consistenza. Come rivendicare qualcosa di cui non saprai che fartene, che non sarai in grado di usare.
E così aggrapparsi al sole di domani mattina, che arriverà molto dopo al tuo risveglio quando ancora è notte. Pensare che sarà bello tirare su le avvolgibili di camera ancora una volta. Osservare il fascio di luce che si infrange sul parquet e quasi acceca. Organizzare la giornata, pensare al pranzo, pregustare il lungo pomeriggio senza farsi travolgere dal vuoto dei minuti che si rincorrono.
Va tutto bene. Adesso va tutto bene. Dirselo, ben sapendo che non durerà. E infatti non dura.
Infine irrompere nell’incertezza di aver lasciato una traccia, di essere stata qualcosa per qualcuna o qualcuno. Ma nella certezza che c’è una fine vicina. Anche se non sai quando.
Ancora un sospiro, ancora un groppo in gola che va su e giù, ancora pianto. Ancora l’altalena frenetica dei tuoi anni, settanta quasi ottanta. Che a volte è tormento, altre assoluzione…
Illustrazione: Becc